lunedì 22 novembre 2010

Cercando funghi
















lunedì 15 novembre 2010

Il Crepuscolo degli dei









venerdì 12 novembre 2010

Uno studioso nel Tibet ignoto - Giuseppe Tucci, "Il paese delle donne dai molti mariti"

"...lo sprone della scienza secondava in me una nativa volontà d'evasione, un istintivo amore della libertà e dello spazio, il capriccio del fantasticare e del sognare che lo si soddisfa lontano dall'umano consorzio, quando si è soli fra la terra e il cielo, oggi qui domani là in un paesaggio quotidianamente nuovo, tra gente nuova ma radicata dappertutto su questa terra antica..."
(Giuseppe Tucci)


Giuseppe Tucci, al centro 

immagini sottostanti: pastori nomadi in Himalaya, eremo di Milarepa, il Monte Kailash, dvinità del Kailash in un'immagine sacra, maschera demoniaca buddista

Giuseppe Tucci, come qualche studente di filosofia e letterature orientali saprà, è considerato uno dei massimi studiosi di lingue e culture orientali del nostro paese, fondatore nel 1933 dell'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente e organizzatore di numerose spedizioni in Tibet, Nepal, Pakistan e Afganistan, dagli anni '30 agli anni '50, che ottennero numerosi risultati scientifici. Il libro che mi appresto a presentare non è però un testo scientifico, in quanto raccoglie numerosi articoli di viaggio che apparvero su alcune riviste dell'epoca. "Il paese delle donne dai molti mariti" (Neri Pozza 2005) raccoglie appunto quelli che erano, come dice il curatore dell'opera, "articoli anche corposi, accompagnati da fotografie stupende di cui non avremmo saputo nulla se fossero rimasti negli archivi (...) Leggendoli la prima volta ci ronzava ancora per la testa quella qualifica di "divulgativi" adoperata in Italia fino a non molti anni fa dai baroni del potere accademico per boicottare tutte le forme di sapere che non passassero attraverso loro (...) Un intreccio unico di dottrina, passione ed empito visionario che aveva il ritmo delle carovane così amate dal professore: un lento, meraviglioso e quasi incantato avvicinamento a un mondo agli antipodi di quello occidentale, che veniva svelato vallata dopo vallata finchè la carovana non aveva raggiunto il passo..." In effetti in questo libro si parla molto di montagna, di carovane e di viaggi alla scoperta dei remoti paesaggi e delle antiche culture dell'Himalaya. Natura e Cultura vanno così di pari passo: accanto ai resoconti di culture, tradizioni, popoli incontrati nelle sue spedizioni, v'è anche la descrizione della vita nomade a contatto con la natura  selvaggia e misteriosa degli altipiani del Tibet.  Un'opera non diretta esclusivamente agli eruditi in storia delle filosofie orientali dunque, ma un libro di viaggi  che può stare nella biblioteca di qualsiasi appassionato di montagna, che sia cosciente dell'importanza dei segni dell'uomo, e delle culture che si sono sviluppate tra i popoli delle "alte quote".

Un libro che raccoglie scritti che vanno dagli anni '30 agli anni '50, ma che forse risulterà molto più avvincente di tante recenti opere di avventurieri sulle moderne spedizioni nell' Himalaya. Più che fare una sintesi, attraverso le mie parole, del contenuto di questo interessante (e forse poco conosciuto) libro, ne parlerò riportando stralci dagli articoli in esso contenuti.

Evocative sono le pagine in cui Tucci si sofferma sul significato profondo della vita errabonda lungo le piste, come in uno scritto del 1956, Vita Nomade :


Ma quando avete una carovana tutto è diverso; vi sentite padroni del mondo (...) oggi qui domani non sapete dove, dove c'è erba e acqua e dove vi incanta la bellezza dei luoghi, la maggior delizia per il poeta che in fondo a noi, se non siamo divenuti come i bruti torpidi e sprovveduti, sempre vigila e sogna. Soltanto allora trovate e godete la libertà, non quella di cui tutti oggi parlano ed è sempre soggezione, perchè libertà nel vivere consociato vuol dire soltanto piegarsi alle consuetudini o alla volontà della maggioranza e della forza, o quel consenso con l'opinione comune che significa di fatto non avere la propria: e non c'è nessun arzigogolo filosofico che mi abbia mai persuaso del contrario; perchè libertà è quella dell'uomo che parla con le stelle e contempla le montagne che si aprono al sorriso dell'alba e allora rivelano le loro resistenze e debolezze, o ascolta quella musica della natura che già commosse i filosofi della Cina antica...

e ancora sul significato della solitudine per il viaggiatore:

Voi sapete che a molti la solitudine, a lungo andare, riesce intollerabile e più di un viaggiatore ho incontrato che s'affrettava a tornare indietro preso quasi da vertigine innanzi a quelle voragini di silenzio e di deserto. Non a me; anzi vi dico subito che la solitudine mi è apparsa la miglior consigliera ed amica: estingue le diffidenze, i sospetti, quello stato di allarme continuo che, nella vita consociata, per la necessità della difesa e della vigilanza, rendono l'uomo guardingo: la vita all'aria aperta, fra gli alberi o le rocce, sotto il sole o lo stupore freddo della luna, restituisce all'uomo una serenità innocente.

Il ritorno agli archetipi della vita nomade era per Tucci anche dovuto alla presenza, in quei luoghi, di un'umanità "diversa":

... i ricordi più belli della mia vita sono quelli delle mie spedizioni, forse perchè alla sorpresa delle scoperte è commisto questo senso di ritorno alle origini: ed anche il ritrovarsi in mezzo ad un'umanità più semplice, più dolce, meno disposta all'offesa o all'inganno se non qualche volta, sulle prime, ostile, perchè sospettosa dello straniero, dei suoi modi, delle sue intenzioni; delle sue stranezze e soprattutto della sua abituale mancanza di rispetto per le tradizioni, i culti, gli dei suoi.

L'uomo del Tibet era segnato nella personalità dalla vastità della natura, che lo sovrastava ponendolo in un'atmosfera irreale, quasi onirica per il predominio assoluto di paesaggi che avvolgono continuamente l'uomo, con risvolti sul relativo adattamento culturale. Ecco come Tucci parla del Tibet nell'articolo "Il paese delle donne dai molti mariti":

Qui da noi il centro di tutto è l'uomo, e ogni cosa ci parla delle opere dell'uomo: di questo titano che in ardimenti demiurgici ha scatenato una tremenda battaglia contro la natura e le sue forze. Là nel Tibet è proprio il contrario: gli uomini sono scarsi, piccole comunità, spesso nomadi, che non hanno nessuna aderenza alla terra: e non potrebbero averla, tanto aspro è il clima e così restio a dare. Essi si piegano ai voleri della natura e non la contrastano: e se qualche volta vogliono allontanare certi aspetti che ad essi nuocciono, non ricorrono nè ad opere nè a macchine, ma a formule insegnate loro da santi e asceti: con quelle guidano, coartano e dominano gli ascosi poteri che essi immaginano regolino coscienti gli avvenimenti naturali.


 ...i tibetani hanno virtù innegabili. Frugali tanto che sembra quasi impossibile come in uno dei climi più duri della terra possano vivere con quel pochissimo che mangiano: farina di orzo impastato con acqua, una orribile mistura di infuso di tè, mescolato con soda, burro e sale, e, d'inverno, un po' di albicocche secche importate dal Ladak o dalle province meno alte: carne quasi mai e neppure verdure.


Tucci nei suoi resoconti non idealizza la vita religiosa del Tibet, che a quell'epoca, secondo le conoscenze dello studioso, avrebbe invece perso la gloria mistica e la ricchezza spirituale del passato.

La vita monacale, i grandi monasteri non sono più centro di vita spirituale come lo furono un tempo: il senso religioso della vita, l'ardore mistico, le ebrezze della fede stanno diventando cose rare anche nelle scuole monastiche del Tibet: fare il frate è un comodo sistema di risolvere il problema della vita. I conventi sono ricchi: d'inverno ci fa caldo, la fatica è poca e il prete è rispettato e temuto.

La vita religiosa del Tibet sembra coincidere per Tucci con le grandi tradizioni del misticismo, materializzatesi nei templi e nei monumenti sacri, sparsi per quelle lande desolate, un tempo grandi centri di vita spirituale. Come documentava Tucci, ancora non erano però del tutto scomparse le manifestazioni dell'antico e originario ascetismo:

vive ancora, fuori dai templi, nei piccoli romitori, negli eremi sperduti fra i monti, gente che si fa murare per dodici anni in una grotta e non fa altro che meditare, estrarre dal proprio corpo capacità e forze che a noi sembrerebbero miracolo, assoggettare il meccanismo del respiro ad acrobazie portentose che portano a strani domini delle funzioni fisiologiche e a sviluppi insospettati della vita cosciente (...) è proprio in queste figure che vive, non ancora fiaccata, la grande anima del Tibet, quel suo senso sacro delle cose, quella sua intuizione dell'unità fondamentale dell'essere e del pensare, dell'operare e del conoscere che ne fecero uno dei popoli più intimamente religiosi della terra.

Ma, per tornare al significato che aveva (ha) la natura e la montagna nelle culture dell'Himalaya, è opportuno citare alcuni stralci ripresi dalle più belle pagine del libro, quelle relative ad una delle montagne più famose dell'intera catena himalayana, il Kailash, una stupenda piramide di 6600 metri, sacra sia agli induisti che ai buhddisti, nota in Tibet come Karinpocè, "gemma del ghiaccio". E' da ricordare, come aneddoto della storia dell'alpinismo, l'esperienza di Reinhold Messner fatta a proposito di questa montagna (e raccontata nel suo 13 specchi della mia anima): il grande alpinista aveva deciso di scalarla, ma poi capì che quella montagna inviolata era sacra per le popolazioni dell'Himalaya; così Messner si "accontentò" di partecipare alla percorrenza del circuito ad anello della montagna,  assieme alle carovane dei pellegrini. Con umiltà e saggezza il grande eroe di tutti gli ottomila della terra, girò attorno alla montagna assieme ai pellegrini e al lago Marasarovar, partecipando seppur da straniero e da occidentale, ad una scalata forse più importante: quella dell'elevazione interiore.

Per Tucci:


il culto della montagna è elemento fondamentale nelle religioni di tutte le stirpi himalayane: ed è naturale, proprio perchè i montanari sono i più sensibili alle ineffabili bellezze di queste cime che toccano il cielo, e ne temono le insidie, e ne conoscono la terrifica maestà quando la tempesta si scatena sui dirupi, e il tuono urla di giogo in giogo, e i fulmini scoppiano sulle guglie mai violate dall'uomo.

 Così Tucci descrive il suo suggestivo  incontro con il Kailash:

io di montagne ne ho viste e ne ho scalate tante, che debbo essere creduto quando affermo che il Kailasha esercita su chi lo vede per la prima volta profilarsi all'orizzonte un'impressione di superba bellezza che non si può dimenticare. E si comprende che i pellegrini indiani, che affluivano dalle pianure attraverso le aspre giogaie himalayane, piegassero le ginocchia alla prima vista di questa montagna e la celebrassero come dimora dei loro dei.

In questo resoconto (Il Kailasha) Tucci scrive pagine di rara bellezza, sia nella descrizione della natura del posto che in quella dei momenti del pellegrinaggio...

Il cono adamantino del Kailasha si scopre per la prima volta da una ripido costone che separa il lago Manosarovar dal Raksas-tal: si vede lo scintillare della cima superba sotto un cielo di turchese, quasi solitaria vedetta fra un lento ondeggiare di altri giganti che fuggono verso nord in un indefinito susseguirsi di guglie e picchi. Visibile d amolti punti del Manosarovar, a Barka appare in tutta la sua magnificenza: Barka è una casa in mezzo ad accampamenti di pastori e di nomadi, sulla pianura che si protende immensa come una landa sconfinata; una sterpaglia folta e, vicino ai laghi e ai fiumi, pasture verdi dànno a questa distesa, che s'allarga a quasi cinquemila metri di altezza in mezzo a deserti rocciosi e dirupi selvaggi, un aspetto di sereno pascolo nostrano.


La pista sale su un costone che raggiunge i 5800 metri e che, dal nome della dea della salvazione cui è consacrato, è conosciuto come il "Dolmala"(Passo di Dolma). Su mucchi di sassi accatastati i pellegrini hanno piantato dei pali, hanno steso sulla cima una corda, e sulla corda hanno appeso banderuole di stoffa colorata, sulla quale sono stampate, con inchiostri neri o rossi, formule e preghiere. Il vento le agita, e chi ha appeso quelle banderuole alla corda è come se recitasse le preghiere ad ogni soffio d'aria che spira. L'ascesa di questa strada aspra e lunga è anch'essa un simbolo: simbolo della disciplina della vita, che prepara le beatitudini del nirvana. (...) Nello spirito di questa gente, in cui profondo è il senso religioso e connaturato il ragionare per simboli, nell'ascesa della montagna sacra si ripete quasi il dramma della vita. E solo quando il Passo del Dolma sia raggiunto con questa fede, la fatica dell'ascesa diventa purificazione dell'anima.




La grandezza del libro non si esaurisce nei resoconti delle esplorazioni di Tucci, in quanto gran parte dei vari resoconti si incentrano su argomenti come l'arte sacra del Tibet e il senso stesso della religiosità e filosofia buddiste tibetane; argomenti complessi che però possono essere, seppur debolmente per il profano, penetrati grazie alla capacità divulgativa dello studioso. Ecco, per fare un esempio come Tucci ci illumina sul significato profondo delle immagini sacre tibetane:

Ma fatti animo, interroga i monaci, leggi le scritture sacre e vedrai quelle immagine svanire, quegli dei dissolversi e questa religione che ti sembrava un polidemonismo esagerato svuotarsi per incanto dei suoi idoli, la fantasmagoria di figure sacre sparire, come le nebbie della notte alla prima luce dell'alba,  e la policromia dei mostri danzanti dileguare in un vuoto incolore e scialbo. Gli dei allora non ci sono più; quest'olimpo orgiastico o lugubre cede il posto ad una religione senza dei, anzi senza Dio, ad una contemplazione serena del vuoto, alla rivelazione di una luce implacabile, impassibile, abbagliante nel cui splendore immoto tutto si smarrisce e si scioglie come il sale nell'acqua. E ti ritrovi solo, tu che sei tutto; perchè tu sei quella luce; non più persona caduca con le sue limitazioni, il suo quotidiano soffrire e sperare, ma la  tua individualità irriducibile nella sua quintessenziale purezza. Quando la religione dissolve pure gli dei l'uomo è meno ancora che il sogno di un'ombra; come l'immagine della luna sul tremulo specchio d'acqua. Il tibetano vive  e muore nella certezza che il vero non è nelle cose che vede, in quelle che lo spaventano e lo turbano, lo fascinano e lo illudono, ma proprio in quel nulla che alita come un soffio ghiacciato ogni aspetto del mondo. E se gli domandi cosa c'è in fondo a questo mistero dell'universo, ti risponderà sempre: tompagnì, il vuoto, il nulla; tutti, dal sacerdote al carovaniere, dal principe al contadino. Anche gli dei dunque possono essere fatti di burro, perchè il vuoto del divenire tutto trascina e cancella (...) Bisogna arrivarci poco a poco, per una scala che ha molti gradini; e i gradini sono questi dei, queste immagini, questi simboli che nei primi momenti della nostra educazione spirituale prendiamo per veri e reali, eppoi, a poco a poco affinandosi la nostra nuda purità, vedremo dileguare come fuoco nel burro.