martedì 17 aprile 2007

Diario - 07 aprile 2007

foto by Indio
Un mare di neve - escursione a Serra delle ciavole
Un’escursione sulla neve è sempre faticosa. Il tempo impiegato per arrivare sulle cime raddoppia o quasi. Parto perciò prima dell’alba con la lampada frontale, anche se quasi non ce ne sarebbe bisogno visto che la luna piena illumina la stradina… Camminare al buio da solo mette sempre un po’ di soggezione. Forse quella del buio è una paura atavica o forse, ancora più plausibile, l’uomo contemporaneo si è disabituato all’oscurità, visto che è ormai avvezzo a vivere in città perennemente illuminate. Non incontro nessun animale selvatico; sento ogni tanto il rumore degli uccelli tra i rami dell’albero che ancora stanno dormendo, spaventati dalla mia presenza. Prendo la strada per il Piano di Jannace , nei pressi di Acquatremola. Comincia ad albeggiare quando arrivo al pianoro di San Francesco. Ho la luna di fronte e nuvole rossastre nella direzione dove sorge il sole. Davanti a me, lontani, i pini loricati di Serra Crispo, avvolti nella nebbia che avvolge i crinali delle montagne all’alba. La neve comincia via via ad ingombrare la strada forestale. Metto le ciaspole ai piedi e comincio a salire. Gli occhiali da sole in giornate di sole con la neve sono obbligatori. Piano Jannace è immerso nella neve. Fotografo le strane linee parallele che si sono formate sul bianchissimo manto nevoso. Arrivo alfine al Piano di Toscano. Qui la neve è ancora ghiacciata, quindi si sale senza difficoltà. Le racchette hanno anche i ramponi e perciò sono adatte anche ai pendii ripidi. I Piani di Pollino sembrano un mare di neve… in alcuni punti la neve arriva anche a un metro e mezzo. Prendo il sentiero che sale alla Serra delle Ciavole. Dato che è sommerso dalla neve riconosco di alcuni pini loricati che fanno da riferimento. I pini più in alto sono ancora pieni di neve e di ghiaccio… ricordano vagamente i coralli del mare. Seguo la cresta e arrivo alla cima. Mangio un po’ di fichi secchi e di cioccolata, cibi che danno molta energia. La sommità della serra è pianeggiante per un certo tratto poi, cominciano ad ergersi delle rocce rotonde attorniati da pini loricati secchi, che formano una visione molto suggestiva. Proseguo per un po’ nel seguire la cresta e fotografo i pini accasciati a terra che hanno assunto tale forma a causa del vento impetuoso delle creste. Lungo la cresta allungata di Serra delle Ciavole la neve ha formato delle cornici molto alte. Se andassi sopra di esse la neve non reggerebbe il mio peso e precipiterei giù per centinaia di metri. In questi casi bisogna stare attenti perché la neve ricopre tutto e spesso non si sa cosa c’è sotto. E’ ora di scendere, giù, per tornare ai piani di Pollino. I pendii sono ripidi e trovo difficoltà con le racchette a scendere, ma senza di esse sarebbe ancora peggio. Ai piani incontro dei giovani sciatori e un escursionista solitario come me che si dirige verso la Grande Porta. Avverto i primi segni di stanchezza. La neve col sole è diventata marcia e si sprofonda di più. Qui si che siamo davvero immersi nella natura e nel suo silenzio... altro che piste ed impianti di risalita! Proseguo per i boschi di faggio e abete. Ormai il pensiero è solo quello di arrivare a casa, perché sono molto stanco. Esco dal bosco di faggio e abete. Il paesaggio attorno al Monte Pilato è tutto segnato dal corso dei torrenti che discendono a valle e che portando giù la neve disciolta delle cime, di quel “mare di neve” che scomparirà con la fine della primavera…

martedì 3 aprile 2007

Un recupero della sacralità della natura

Per chi è appassionato di montagna e di natura in generale, sarà successo a volte, nelle proprie escursioni a contatto della natura selvaggia di avere la sensazione di trovarsi al cospetto di qualcosa di sublime e di elevato, che va oltre i semplici canoni di giudizio estetico con cui guardiamo e “ritagliamo” parte della natura, in base ai nostri modelli culturali. Forse è un dato di fatto che popoli e culture diverse nel tempo e nello spazio hanno sempre guardato con soggezione e con un senso di rispetto a montagne, rocce, colline. Basti pensare alle montagn sacre dei Tibetani secondo i quali “le montagne sacre sono i dei del paese o i signori del luogo; sono considerate ora i pilastri del cielo ora i pioli della terra”; basta pensare all’inviolata Kailash, considerata la montagna più sacra del Tibet, alla quale viene dedicato ogni anno un pellegrinaggio che si snoda attorno ad essa… La società occidentale capitalistica assume qualsiasi cosa in termini economicistici. Il lavoratore ad esempio non è un individuo con un suo mondo interiore e con le sue potenzialità creative, ma un mezzo da utilizzare nella produzione, da sfruttare e che comporti il minor costo possibile. Così anche l’ambiente naturale, il quale non è guardato come qualcosa che ha un valore in sé, ma come una risorsa da utilizzare comunque in qualche maniera. Il paradosso è che anche la salvaguardia dell’ambiente e la creazione dei Parchi Nazionali se vista solo come occasione per sfruttare l’ambiente dal punto di vista turistico può portare a conseguenze nefaste: nel tentativo di voler valorizzare l’ambiente così lo si può anche deturpare. Esempi di questo atteggiamento ne abbiamo tanti. In molte aree delle Alpi l’ambiente alpino originario è stato abbruttito e cementificato con alberghi, strade e impianti di risalita, secondo quello che viene definito dai sociologi “urbanizzazione della montagna”. La montagna non è più tale, perché per essere fruibile da certa gente bisogna trasferire su di essa tutte le comodità della città. Così c’è bisogno dell’impianto di risalita, della funivia, della strada che porta all’impianto sciistico, perché la gente non vuole camminare, dell’albergo a cinque stelle d’alta quota, perché il turista dei tempi moderni non si accontenta dell’alberghetto dei paesini di montagna o del rifugio costruito con pietre e travi di legno. Ovviamente ci sono molte altre zone d'Italia dove le montagne non hanno fatto questa tragica fine. Ma anche nei parchi nazionali spesso ha luogo la costruzione di strutture finalizzate ad attrarre i turisti che alla fine non fanno altro che deturpare i paesaggi originari delle montagne. Spesso si sente parlare di valorizzazione. Ma questo termine può avere significati assai diversi, con le rispettive implicazioni e conseguenze. Anche la valorizzazione ambientale ai soli fini turistici è economica. E’ ovvio che un parco nazionale debba anche creare occasioni di sviluppo economico, ma lo sviluppo deve obbligatoriamente conciliarsi con la tutela dell'ambiente. Ciò significa che bisogna anteporre innanzitutto il valore intrinseco della natura, il valore in sé, al valore prettamente economico. Chi ha interiorizzato il valore opposto a quello utilitaristico, sa che per andare in montagna non servono né impianti, né strade né funivie. Servono un paio di buone scarpe da trekking, uno zaino e una tenda, e la voglia di stare a contatto con una natura non sopraffatta dall’alterazione delle attività umane più distruttive. La questione investe il campo dei valori ed è quindi di natura culturale. In una società come la nostra, dominata dall’individualismo più sfrenato e da una cieca volontà distruttiva intrinseca al sistema socio-economico attuale, per cui ogni cosa ha un valore solo in termini economici, l’ambiente naturale è solo una “risorsa”, (termine quest’ultimo che difatti ha origine nella scienza economica). Chi come me si è trovato a fare discorsi del genere con alcune persone è stato bollato (anche a fin di bene) come un “romantico”, un “idealista”, un “sognatore”. In un’epoca circondata dallo squallore di una vita passata nel traffico e nell’affollamento delle città, dove i bambini non hanno mai visto una farfalla o uno scoiattolo, nella quale anche le vacanze sono organizzate secondo i ritmi frenetici della vita moderna, appellativi del genere non possono che rallegrarci. Tuttavia la questione non riguarda il “romanticismo” ma cose ben più concrete. Il problema dell’inquinamento oggi sta investendo tutta la società mondiale. Stiamo finalmente cominciando a capire che i ghiacciai si stanno sciogliendo ed essi non rappresentano un valore solo per qualche alpinista “romantico”, ma sono importanti per l’equilibrio del sistema climatico mondiale. Oggi l’uomo comincia a provare sulla propria pelle come qualsiasi danno fatto alla natura ricade su se stesso, sulla propria vita materiale. I popoli bollati come “primitivi” avevano capito che invece la natura va rispettata, non tanto perché rappresenta qualche divinità da onorare, ma perché noi siamo parte di essa e qualsiasi danno fatto alla natura lo facciamo a noi. Distruggere e alterare l’ambiente naturale significa poi privarci di un riferimento che è pregno di valori simbolici e culturali e che riguarda il cordone ombelicale che ci lega alla terra e agli altri esseri viventi. Come potremmo fare a meno di un paesaggio infinito fatto di montagne incontaminate, o di foreste dagli alberi secolari o della varietà di animali dai colori e dalle forme innumerevoli? Senza la natura l’uomo diviene più povero interiormente, viene slegato da quello che era il suo ambiente primordiale cioè l’ambiente in senso proprio, fatto di alberi, fiumi, animali,montagne e introdotto in un ambiente artificiale dove predomina il cemento e l’elettricità, file di auto impazzite e un cielo che di notte diventa rosso per lo smog. Il ritorno alla natura, e quindi anche ad uno stile di vita che non crei un impatto distruttivo per l’ambiente e più in armonia con i cicli naturali, rappresenta un’inversione di tendenza irrinunciabile rispetto al trend attuale della fuga nelle megalopoli del mondo, dello spreco energetico, dell’inquinamento della terra. Il riferimento alla natura rappresenta anche l’occasione di una sorta di recupero del concetto di “sacro”, proprio delle culture tribali, degli Indiani d’America e di tanti altri popoli che vivono ancora allo stato “primitivo”. Il termine è denso riferimenti alla religione e alla religiosità e quindi non va usato a vanvera. Tuttavia anche oggi “sacro” potrebbe però benissimo riferirsi ad alberi, montagne, deserti, animali, a qualcosa di animato o inanimato, degno di rispetto e ammirazione in quanto parte di questo mondo, in quanto elemento inserito nella dinamica del divenire cosmico, genuino, libero dalle alterazioni della modernità. E’un concetto che useremo in un’accezione che riguarda propriamente la natura selvaggia e pertanto è intercambiabile con quello di “sublime”, “elevato” “di un valore supremo”. E’ ovviamente un’accezione che ha implicazioni filosofiche più che religiose. Ciò a cui io penso non riguarda il soprannaturale, ma la stessa materia, gli elementi nel loro stato originario: acqua, terra, fuoco, aria…libere dalle contaminazioni umane (perchè sebbene l'uomo faccia parte della natura è anche vero ma è l'unico essere che è riuscito ad alterarla profondamente nel corso dello sviluppo della civiltà). Non si può dire che un paesaggio sia solo “bello”, perché la natura non è un’opera d’arte fissa su un muro, ma qualcosa di vivente, che cambia, si trasforma, in un cerchio ciclico che implica un perenne ritorno, il quale rappresenta la dinamica i cui si produce il mutamento attraverso le stagioni. La natura è qualcosa con cui si può venire in contatto e che può essere vista da varie prospettive. C’è stato un tempo in cui le comunità umane vivevano in armonia con la natura, sottraendole ciò che bastava per le esigenze della propria cultura. Non si può e non si deve tornare all’età della pietra, ma bisognerebbe recuperare, in modalità ovviamente diverse, proprio quel senso di rispetto e venerazione per l’ambiente naturale che caratterizzava le culture di un tempo. Gli esquimesi hanno sempre cacciato la foca, ma appena catturato un esemplare, si scusavano con lo spirito dell’animale per avere compiuto quel gesto. Si cacciavano le foche necessarie a sopravvivere.Oggi ancora c’è la caccia alle foche, organizzata secondo metodi industriali, per il profitto e la distribuzione su grossa scala. E c’è da ridere se si pensa che alcuni ambientalisti integralisti hanno lottato per impedire di cacciare le foche agli esquimesi odierni… Lo stesso esempio si può fare per il bisonte, che rischiò alla fine dell’ottocento di estinguersi, per la caccia smodata che venne praticata a quest’animale. Gli Indiani utilizzavano il bisonte come fonte di cibo e di vestiario, mentre gli occidentali prelevavano solo la pelliccia lasciando le carcasse a marcire sotto il sole della prateria. Per gli Indiani non era solo un ammasso di carne, ma un animale sacro come del resto tutti gli altri animali che popolavano i boschi e le praterie. Questi popoli avevano acquisito quella profonda coscienza del legame che ci unisce a tutti gli esseri viventi e alla terra. E’ vero che la società sta prendendo coscienza del problema dei disastri ambientali. Se ne parla tutti i giorni in tv e sui giornali. Ma non si fa nulla per cambiare le cose. Il potere economico e politico resta nelle mani di una classe di privilegiati la quale non è per nulla intenzionata a invertire la rotta disastrosa che l’umanità ha preso. Si può ribaltare la situazione solo se ritroveremo la forza di cambiare la società e ricostruire da capo su nuove basi un sistema diverso, che ci permetta di ricreare quel legame che ci lega indissolubilmente alla "Grande Madre Terra".

domenica 1 aprile 2007

Sui Sentieri del Pollino

Sui sentieri del Pollino - G. Braschi - Edizioni Il Coscile 1993 "Cercate di "sentire" la natura che vi circonda, di entrare in sintonia con le sue Grandi Forze, quelle del sole e delle nubi, del vento e delle acque, quelle pulsanti di vita del bosco e dei suoi abitanti, quelle profonde e misteriose delle rocce e della terra. Con l'abitudine e un pò d'attenzione non è difficile riuscire a percepirle. Sono tutte quelle forze sottili e grandiose al tempo stesso che gli asceti orientali chiamano "il Respiro del Cosmo". Se riuscirete a percepirle, ogni escursione diverrà fonte inesauribile di forza d'animo, libertà interiore e gioia di vivere" Giorgio Braschi E’ IL libro che dovete assolutamente leggere per iniziare a conoscere il Pollino. All’interno sono descritti una miriade di itinerari che attraversano i luoghi più suggestivi e spettacolari del massiccio. Ovviamente troverete foto splendide scattate dall’autore nelle sue innumerevoli escursioni. Il libro è poi anche un curatissimo manuale di trekking che offre utili consigli per vivere nel modo migliore le proprie escursioni sul Pollino, in tutte le stagioni...

Scorciatoia per il Nirvana

La Montagna Sacra - prof. Giacinto Bollea La montagna ha partorito il topolino? Questa è la prima (e non mediata) impressione che nasce dalla lettura di "Scorciatoia per il Nirvana" di Dario Guidi (EDT Editore. Torino). Perché bisogna dire subito che la montagna è nientemeno che il Kailash, in Tibet: e allora scriviamo Montagna (con la maiuscola) e ricordiamo almeno che essa è sacra a quattro religioni - forse anche perchè dal suo territorio nascono quattro grandi fiumi dell'Asia e forse principalmente perché intorno ad essa si può chiudere un cerchio di cammino, dunque senza essere, propriamente, alpinisti.Già queste minime considerazioni possono far presumere, forse incautamente, che un viaggio al Kailash si muti in un pellegrinaggio o equivalga in qualche modo ad esso. Incautamente perché non necessariamente un periplo intorno alla montagna, compiuto dagli occidentali, è inteso o vissuto come un pellegrinaggio, mentre questa è la regola - si direbbe assoluta - per una quantità di asiatici di ogni provenienza che vi accorrono ogni anno. Un viaggio di questa natura concede comunque, di questa montagna, un possesso che possiamo dire "territoriale" e che va oltre quello visivo senza essere alpinistico. Ci si potrebbe quindi aspettare che esso sia esperito, vissuto e "sentito", se si accetta la parola in qualche modo del tutto particolare.Ora, il libro in parola è piuttosto il resoconto "comune", ordinario, di questo viaggio, certamente, assolutamente sui generis, che non la esplicitazione di sentimenti, intuizioni - diciamo anche illuminazioni o rivelazioni? - che (sempre presumendo) da esso dovrebbero nascere, originarsi e quasi sprigionarsi. Il libro (un volumetto che si legge in due ore) descrive dunque il viaggio che, lungo una celebre quanto disagiata strada, al Kailash conduce dalla lontanissima Lhasa; il periplo della montagna non ha in esso, come tale, un particolare rilievo.Nulla esiste al mondo, come si sa, che non meriti una bibliografia: in questa, per definizione, tutto deve avere una collocazione che vorrei intendere attiva e proficua. Questo libro fa giustamente pensare, in particolare, alle infinite cose alle quali, in una prospettiva mitico-religioso-naturalistica della montagna, fatta centro del viaggio, di solito non si pensa come si dovrebbe: la povertà estrema della gente nomade dei luoghi, la sua commovente e quasi stupefacente ricerca di tutto ciò che per i ricchi viaggiatori occidentali è il nulla di un oggetto da abbandonare dopo l'uso... E poi le difficoltà, anche banalmente fisiologiche, della quota ed dell'adattamento alla medesima, la sporcizia dilagante, esplicita, quasi esibita en plein-air, dei luoghi di sosta, la ottusa, implacabile occupazione cinese tesa a distruggere, giorno per giorno. Una cultura che è unica anche per l'ambiente che, ospitandola, ha contribuito a determinarla. Lo stile del libro é, quasi corrispondentemente, semplice, quasi dimesso, scarno, di basso profilo: anche quando, ben s'intuisce, l'autore ha a che fare con luoghi e paesaggi che sono eccezionali e che scatenerebbero diversamente il concorso delle sensazioni e degli aggettivi.Si potrebbe tranquillamente concludere che ciò che si è sopra ricordato merita ampiamente un libro, e si vorrebbe anzi che questo fosso più ampio ed esauriente sotto ogni aspetto, a cominciare da tutto ciò che riguarda l'occupazione cinese e il suo futuro ormai prevedibile e quasi incombente. E tuttavia anche (o proprio) a chi questo viaggio non potrà mai compiere, il Kailah qualcosa deve concedere in termini di riflessione immaginativa ed estetico-naturalistica, e se si vuole dì suggestione mitico-religiosa. Questo, in fondo, anche perché del Kailash, non è dato sentire discorsi in termini propriamente alpinistici, essendone vietata la salita.Se ne potrebbe dunque parlare, in primo luogo, in termini dI immagine: ma non è opportuno insistere sulla "bellezza" della montagna - neppure discutibile, in verità, per quanto la parola sia notoriamente acritica - quale essa appare dalle tante fotografie che sono proposte da libri e riviste. Non mi sembra un caso, d'altra parte, che il libro in parola, privo di fotografie, non riporti il Kailash neppure in copertina. Qualche altra considerazione, allora, s'impone come per naturale conseguenza; e non può che raccogliersi, se mi si passa l'espressione, sul versante sacro della montagna. Può destare una certa - forse compiaciuta curiosità il fatto che guardiamo (più esattamente: immaginiamo di guardare!) la montagna con gli occhi dei pellegrini (o dei viaggiatori) e non con quelli degli alpinisti, cosa che concede, forse, un certo privilegio nei confronti di questi ultimi. Non si può certo dire che sarà sempre così - si pensa in primo luogo, per esempio, ai cinesi, ma s'intuisce subito, lungo questa strada, in che cosa può consistere, che cosa può significare una profanazione: ed è appunto significativo che si senta che la cosa può valere indipendentemente dalla religione che si professa (o che non si professa).Ma proprio in questo senso, a dire il vero, si urta contro una difficoltà apparentemente insuperabile: la sacralità si esperisce (o si comunica) con il rito e con la parola, qui si cammina ritualmente per giorni intorno alla montagna, si recitano fiumi di preghiere e si lasciano innumerevoli "bandierine di preghiera" al valico più elevato del periplo: ma di queste plurime preghiere, voglio dire, non abbiamo, con parole nostre, la consapevolezza di ciò che significano, di ciò a cui mirano, delle intenzionalità che esprimono.Si può ovviamente rispondere che questa sorta di pretesa è assurda (al di là del fatto che la lingua dei pellegrini è, quasi in assoluto, ignota ai viaggiatori). Pretesa assurda, intendo (e forse anche un po' arrogante), perché sottende la riduzione di questi particolarissimi stati di coscienza degli altri ai nostri, che si nutrono di autocoscienza, come noi diciamo. Forse la presenza propria del pellegrino al quale non si può certo negare una consapevolezza, autenticamente si nutre della preghiera, affidata all'onnipresente vento e del gesto che depone al passo più alto la bandierina che reciterà al vento - e qui così essa presenza acquisisce il massimo di se stessa in un modo saziante e ottimale, che forse noi non giungiamo a comprendere pienamente. Io e montagna divinizzata (o sacralizzata) possono per così dire congiungersi, coincidere mediante un gesto di passo e di parola: altre parole sono ancora necessarie? Questa esperienza, che può essere irrinunciabile quanto poco o niente dicibile, può essere naturalmente anche collettiva: in essa il singolo deve cedere, sacrificare qualcosa di sé alla presenza degli altri, come a questi a poggiandosi nel lunghissimo cammino intorno al monte. Dice un altro viaggiatore: "Incontrerete paralitici, vecchi e bambini (...). Al termine avrete espiato i peccati della vostra esistenza, ma avrete anche vissuto un'esperienza unica al mondo." E' spiegabile dopotutto che il cerchio della perfezione si chiuda anche in una dimensione collettiva: perché la perfezione (questa perfezione) dovrebbe essere riservata al singolo? La salvezza non dev'essere comune? Sulla montagna non si può vivere, ma ci si può avvicinare al luogo degli dei, sia pure con le struggenti difficoltà che ciò comporta: e ciò è vita e vittoria, festa e liberazione, progetto e compimento, fede e santità.S'incontra qui, dunque, con ogni evidenza, qualcosa come il sacro. Non so certo definirlo e meno che mai oserei tentare di farlo in una pagina. Qualche idea sparsa, tuttavia, si può allineare. Per esempio quella che il sacro si può incontrare ed esperire prima che descrivere: che, dunque, si può vivere "sul campo" e anche insieme agli altri. Dunque esemplarmente, per quel che si vuol dire qui, partecipando a un rito, qual è in sostanza l'ascesa a una montagna o il suo periplo. Bisogna farsi pellegrini, per capire qualcosa di tutto questo? Forse ha qualche senso dire che la sacralità vissuta dagli altri può essere fatta propria (se vale l'espressione), anche se non pienamente compresa come tale, già per una forma di rispetto che è di per sé quasi partecipativo.Ora, se così difficile da accettare, più che da comprendere, una sacralità priva di dei e di religione, ci si deve conseguentemente affidare all'unica entità o realtà che può diversamente sorreggerla, la natura: qui esplicitata, esemplificata, raccolta, condensata nella montagna, in una montagna. Bella o meglio affascinante a quel che dicono anche le immagini, per la forma quasi perfetta (ricorda una piramide), per la immensa e raccolta potenza che esprime, per i ghiacci che ordinatamente la ornano.Dall'antico si onorano rocce e pietre, e le si fa partecipi della valenza generale dell'elevazione ponendole in verticale. Qui la dimensione verticale è naturale e associata a ciò che è massiccio e dunque possente, e anche calmo ed equilibrato fin nelle sue nascoste radici rocciose. Certo una montagna così, essendo uomini, non può essere, in assoluto, ignorata: non è all'apparenza selvaggia come una infinità di altre per creste, pareti e dirupi. Potrebbe invitare alla salita la vetta è una cupola regolare che, a suo modo, riposa gli sguardi e invita alla presenza. Qui furono posti gli dei e potrbbe essere bello credere che ancora vi risiedano, così che ogni altra presenza sarebbe inopportuna e insostenibile. Ma credo sia importarte riflettere che si accetta benissimo questa assenza di uomini anche se non si crede nella presenza degli dei: l'essenza della presenza sta nel suo essere pensata, anche il nostro alpinismo tradizionale riposa su questa assunzione a priori.Così, anche in questo modo - per mezzo di una montagna - natura e cultura s'incontrano: perché è proprio la montagna che può unire in modo ottimale, entrambe.